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Giustizia e riparazione per le vittime delle contemporanee forme di schiavitù

ISBN/EAN
9788892138018
Editore
Giappichelli
Collana
Univ. Milano Bicocca-Scuola di giurispr.
Formato
Libro in brossura
Anno
2021
Pagine
352

Disponibile

45,00 €
Non c’è internazionalista che, chiamato a riflettere sulla categoria giuridica “schiavitù” e le nuove forme che essa ha assunto per effetto dei mutamenti storici, del contesto socio-culturale ed economico, intervenuti a cavallo degli ultimi decenni del secolo scorso e l’inizio del terzo millennio, possa affrontare l’argomento senza sentirsi sopraffatto da un indicibile sentimento di frustrazione a fronte della persistente “inadeguatezza” del diritto a contrastare un fenomeno qualificabile, senza alcun dubbio, come la “massima violazione” possibile dei più fondamentali diritti umani. La schiavitù, intesa come la più aberrante forma di privazione della libertà degli esseri umani, non è affatto finita con l’abolizione giuridica nel 19° secolo delle sue forme tradizionali (la c.d. chattel slavery, la tratta transatlantica) 1; ha solo cambiato forma e continua ad affliggere un numero impressionante di esseri umani in ogni paese del mondo. Esistita sin dai tempi più antichi 2, questa violazione è stata presa in considerazione, e condannata per la prima volta, con riguardo alla forma più antica di rilevanza internazionale ossia la tratta degli schiavi, nella Dichiarazione del 1815 3. Il movimento abolizionista, che prese vita nel 18° secolo come movimento di opinione internazionale, nato dalla rivoluzione francese e dal credo dei fedeli evangelici inglesi e nordamericani, si connotò per lo sforzo di fermare la tratta transatlantica di schiavi verso le nuove colonie europee in nord America, per altro largamente favorita – come ormai stabilito dalla storiografia moderna – dalla complicità dei potentati africani 4. A livello internazionale seguirono, a partire dal 19° secolo, un importante numero di accordi, tanto bilaterali quando multilaterali, contenti specifiche previsioni relative alla proibizione di tali pratiche sia in tempo di guerra che di pace. Si stima che tra il 1815 e il 1957 del secolo scorso siano stati conclusi circa 300 accordi internazionali aventi ad oggetto la soppressione della schiavitù, nessuno dei quali – per altro – pienamente “effettivo” 5. L’organizzazione internazionale predecessore delle Nazioni Unite, la Società delle Nazioni Unite, si focalizzò particolarmente sull’eliminazione di ogni forma di schiavitù, e pratiche correlate, sviluppate durante e a seguito della prima guerra mondiale 6. La prima convenzione ad essere firmata sotto la sua egida è la Slavery Convention del 1926 7. Considerareche questa vecchia convenzione tuttora in vigore, riguardi unicamente la proibizione della sola “tratta” e non già la “schiavitù” di per sé stessa, ha (a nostro avviso) poco senso logico e giuridico. In primis, non ci può essere “tratta di schiavi” se non ci sono “schiavi”. In secondo luogo, interpretare quelle vecchie norme come unicamente volte a vietare il commercio e lo sfruttamento di esseri umani ridotti in schiavitù in luoghi diversi da quelli in cui tali esseri umani erano (e sono tuttora) ridotti in questo stato, tradisce il senso stesso della normativa convenzionale in questione. Vale forse la pena di citare, a questo proposito, un passo esemplificativo del Preambolo di tale testo in cui i firmatari espressamente si richiamano al Rapporto della Commissione temporanea della schiavitù, nominata dal Consiglio della Società delle Nazioni il 12 giugno 1924, oltre che alla loro ferma intenzione di porre fine al traffico degli schiavi in Africa: “Considerando che i firmatari della convenzione di Saint-Germain-en-Laye del 1919, che ha per oggetto la revisione dell’atto generale di Berlino del 1885, e dell’atto generale della dichiarazione di Bruxelles del 1890, hanno affermato la loro intenzione di attuare la soppressione completa della schiavitù, sotto ogni forma, e della tratta degli schiavi per terra e per mare; animati dal desiderio di completare l’opera attuata grazie all’atto di Bruxelles e di trovare il modo di dar effetto pratico, nel mondo intero, alle intenzioni espresse, in quanto concerne la tratta degli schiavi e la schiavitù, dai firmatari della convenzione di Saint-Germain-en-Laye, e riconoscendo che è necessario concludere a questo scopo degli accordi più particolareggiati di quelli che figurano in tale convenzione; reputando, inoltre, che sia necessario d’impedire che il lavoro forzato conduca a condizioni analoghe a quelle della schiavitù ... hanno risolto di conchiudere una convenzione ed hanno a ciò designato i loro plenipotenziari” (corsivi aggiunti). Inoltre, ai sensi dell’art. 2, lett. b) del trattato in questione, le Alte parti contraenti si sono espressamente impegnate “di attuare la soppressione completa della schiavitù sotto tutte le sue forme, in modo progressivo ed al più presto possibile”. Al termine della seconda guerra mondiale, l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha continuato il lavoro dell’ente predecessore, istituendo nel1975 un apposito Working Group on Contemporary Forms of Slavery all’interno della United Nations Sub-Commission on the Promotion and Protection of Human Rights, il precedente organo sussidiario della Commission on Human Rights creata nel 1947, il cui mandato, meccanismo, funzione e responsabilità sono state successivamente trasferite nel 2006 dall’Human Rights Council 8. Questo specifico Working Group, cui è stato affidato il compito di preparare rapporti comprensivi su tutti i trattati internazionali e il diritto internazionale consuetudinario relativo alle forme tradizionali e contemporanee di schiavitù e pratiche correlate 9, non esiste più dal 2006: il suo successore dal 2007, a due secoli di distanza dalla abolizione della tratta transatlantica degli schiavi, ha uno specifico “mandato” sulle “contemporanee forme di schiavitù, le sue cause e le sue conseguenze”, affidato ad un apposito Special Rapporteur, nominato dall’Human Rights Council 10. Questo specifico “mandato” si affianca e coopera con tutti gli altri meccanismi sui diritti umani specificamente creati in sede ONU per coprire e combattere ed eradicare una volta per tutte ogni contemporanea forma di schiavitù e pratiche correlate: in particolare con gli specifici Rapporteurs sulle varie componenti attuali di questo crimine 11, quali il traffico delle persone, specialmente delle donne e dei bambini; la vendita dei bambini, la prostituzione minorile e la pornografia minorile; le contemporanee forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e collegate intolleranze; la violenza contro le donne, le sue cause e conseguenze; i diritti umani dei migranti. Un collegamento è previsto anche con il rappresentante speciale del Segretario Generale sui bambini nei conflitti armati e con il Board of Trustees for the United Nations Voluntary Fund on Contemporary Forms of Slavery 12. Come tutti questi altri Special Rapporteurs, anche quello sulle contemporanee forme di schiavitù deve sottoporre all’Human Rights Council rapporti annuali sulle attività del proprio mandato, unitamente a raccomandazioni sulle misure da adottare per combattere ed eradicare queste gravissime violazioni dei diritti umani e proteggere le vittime. Per il diritto internazionale contemporaneo, la schiavitù è illegale, in ogni luogo e in ogni tempo. Della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, sancisce al suo art. 4 “No one shall be held in slavery and servitude; slavery and slave trade shall be prohibited in all their forms” 13. Questo obbligo internazionale risulta oggi codificato in una molteplicità di trattati internazionali (dai quali ha derivato il suo carattere consuetudinario) quali i più importanti strumenti internazionali a protezione dei diritti umani: oltre alla Dichiarazione Universale, anche nei due Patti delle Nazioni Unite relativi, rispettivamente ai “diritti economici, sociali e culturali” (artt. 5, 6, 7 e 8), e ai “diritti civili e politici” (art. 8); nel primo e nel secondo Protocollo addizionale al Patto sui diritti civili e politici; nello Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale (art. 7.2 (c)); nelle principali convenzioni dell’ILO, quali la Convenzione sul lavoro forzato del 1930, (n. 29) e nella Convenzione del 1957 sull’abolizione del lavoro forzato (n. 105); nella Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale adottata nel 2001 14 e nel suo Protocollo addizionale sulla prevenzione, soppressione e punizione del traffico delle persone, specialmente donne e bambini che criminalizza il traffico delle persone “for the purpose of exploitation» incluso, “at a minimum, the exploitation of the prostitution of others, or other forms of sexual exploitation, forced labour or services, slavery or practices similar to slavery, servitude or the removal of organs” 15; nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 4 (2)); nella Convenzione americana sui diritti dell’uomo (art. 6) e nella Carta africana dei diritti dell’uomo (art. 5). L’immensa mole di rapporti, di risoluzioni adottate dalle principali organizzazioni internazionali, le numerose decisioni di tribunali internazionali e nazionali, il numero impressionante di trattati internazionali in materia 16, ha prodotto il risultato dell’accettazione di un principio generale, ormai assodato nell’ordinamento internazionale, per il quale la proibizione della schiavitù e delle pratiche ad essa correlate “have achieved the level of customary international law and have attained ‘jus cogens’ status” 17. Con tale status si qualifica un diritto “superiore” rispetto alla “normale” sfera normativa dell’ordinamento internazionale e quindi, come tale, non derogabile dal consenso delle parti mediante trattati, nemmeno in situazioni di emergenza 18. In aggiunta, la Corte internazionale di giustizia, in una celebre sentenza resa più di 50 anni fa, ha identificato il divieto di schiavitù come uno degli esempi di obblighi “erga omnes arising out of human rights law”, come tali “owned by a State to the international community as a whole” 19. Il carattere “collettivo” dell’interesse tutelato da questa particolare categoria di obblighi ne esprime una caratteristica propria, che li avvicina molto a quella del “diritto cogente”, e che è specifica proprio delle norme a tutela dei diritti umani: tali obblighi, infatti, non sono stabiliti nei confronti degli Stati nazionali degli individui, bensì nei confronti dell’intera comunità internazionale, o a favore della comunità degli Stati parti del trattato internazionale in questione (obblighi erga omnes partes). Ne consegue che, per definizione, essi non hanno una natura reciproca, e che la loro osservanza può essere esigita dall’intera comunità internazionale in quanto ledono interessi di natura collettiva 20. Infine, a seguito dell’imponente sviluppo del diritto internazionale penale, seguito dell’istituzione del Tribunale di Norimberga che ha codificato tre categorie di crimini internazionali (crimini contro la pace, quale l’aggressione; crimini contro l’umanità, tra cui il genocidio; e crimini di guerra), la pratica della schiavitù e delle sue forme contemporanee, è universalmente riconosciuta come un crimine contro l’umanità 21. Questa qualificazione è stata confermata dagli Statuti dei Tribunali speciali costituiti dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (rispettivamente, nel 1993 e nel 1994) per la ex Iugoslavia e per il Ruanda nonché dallo Statuto istitutivo della Corte penale internazionale 22. Tra i crimini internazionali contro l’umanità, lo Statuto della Corte comprende, accanto alle fattispecie classiche (come la riduzione in schiavitù) anche “nuove” fattispecie (come, ad esempio lo stupro, la prostituzione forzata e altre forme di violenza sessuale) 23. In aggiunta, la schiavitù assieme alle pratiche ad essa correlate e al lavoro forzato, può essere qualificata anche come crimine di guerra laddove commessa da belligeranti nei confronti di nazionali di altri belligeranti, o un comune crimine internazionale se commessa da pubblici ufficiali o persone private nei confronti di qualunque essere umano 24, comportando come vedremo forme “aggravate di responsabilità” a carico degli Stati in aggiunta alla responsabilità penale individuale 25. Tutto ciò indica che il diritto internazionale ha sviluppato e applicato nel corso dei due ultimi secoli tutto il suo “armamentario” più potente, censurando queste violazioni gravi mediante le sue categorie più innovative e importanti, figlie dei processi evolutivi che hanno caratterizzato l’ordinamento internazionale contemporaneo, rispetto a quello “classico” (improntato all’esigenza di assicurare principalmente la coesistenza fra Potenze), mediante l’emergere e il consolidamento di valori ed interessi fondamentali per la comunità internazionale nel suo insieme. Tra queste, anche la maturata consapevolezza della necessità di un approccio comune volto alla tutela dei diritti fondamentali dell’individuo e dei popoli 26, e la consapevolezza che i diritti umani hanno contribuito a riposizionare l’uomo al centro del “conceptual universe of the law of nations (droit des gens) 27. Non a caso la schiavitù è stata la prima pratica a sollevare problemi legati ai diritti umani fondamentali a livello planetario. Pratica che, nonostante tutti gli sforzi del diritto, continua ancora oggi a persistere, seppur in forme diverse, come grave e fondamentale problema dell’intera c.d. civiltà contemporanea. Occorre, quindi, interrogarsi sul fallimento del diritto (internazionale ed interno) come strumento efficace per la sua funzione normativa e come strumento “effettivo” per la tutela concreta di interessi collettivi dell’ordinamento internazionale. Un diritto enunciato sulla carta, ma in concreto non esercitabile a livello individuale, resta una pura e estratta forma di esercizio normativo retorico. Occorre individuare i “gaps” ancora esistenti nella repressione di queste violazioni gravissime di diritti umani fondamentali, persistentemente diffuse in tutte le aree del globo e riflettere sulle loro radici, sulle ragioni che ancora oggi rendono tale diritto pressoché illusorio per milioni di persone, ed interrogarsi sulle responsabilità e i rimedi giuridici che più efficacemente possono essere implementati per fermare e debellare una volta per tutte una pratica antica quanto il mondo.

Maggiori Informazioni

Autore Boschiero Nerina
Editore Giappichelli
Anno 2021
Tipologia Libro
Collana Univ. Milano Bicocca-Scuola di giurispr.
Num. Collana 23
Lingua Italiano
Larghezza 0
Stato editoriale In Commercio