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Da Vienna A Monaco (1814-1938). Ordine Europeo E Diritto Internazionale [Mannoni - Giappichelli]

ISBN/EAN
9788834851531
Editore
Giappichelli
Formato
Brossura
Anno
2014
Pagine
172

Disponibile

17,00 €
Vienna 1814, Sarajevo 1914: lo zenit e il nadir della storia europea. Come voltare altrove lo sguardo di fronte a cento anni in cui l’Europa ha giocato le sue carte e ha perso? Ricordo collettivo remoto? Non proprio direi. Per una volta un bicentenario e un centenario assumono un significato non rituale in un teatro di politica internazionale dove si ripropongono logiche, dilemmi, strategie che sembravano consegnate a un’epoca lontana. Pare difficile infatti non riconoscere nei sussulti che scuotono l’Europa e il Mediterraneo il sintomo di un movimento tellurico per l’assestamento geopolitico lungo faglie diverse da quelle degli ultimi venti anni. Un movimento che viene da lontano e che riesce difficile spiegare senza una prospettiva di lungo periodo – basti pensare solo a Ucraina e Palestina. Dicevo 1814 e 1914. Date mitiche ma insufficienti a fornire le chiavi per la comprensione del declino europeo. L’esaurimento dello sforzo di trovare un assetto stabile all’Europa si consuma solo nel 1938 con gli accordi di Monaco quando, tramontata la stagione della “sicurezza col-lettiva”, le cancellerie provano a rianimare il principio dell’equilibrio, della balance of power, con la Gran Bretagna come artefice del nuovo corso. Rianimare, certo. Perché la scansione dei sistemi di relazioni interna-zionali europei vede succedersi quattro scenari diplomatici che corri-spondono ad altrettante idee-forza con un ritorno, come nel gioco del-l’oca, alla stazione originaria: l’equilibrio. Ho parlato di sistemi di relazioni internazionali funzionali ad assicu-rare un ordine: l’ordine europeo appunto. Senonché la parola “ordine” può sembrare fuori luogo in un contesto come quello delle relazioni tra stati che è stato definito anarchico, perché privo di un’autorità centraliz-zata. Eppure ordine è il termine appropriato, poiché esprime il consenso degli stati intorno a regole fondamentali di convivenza. L’ordine esiste “quando un gruppo di stati, consapevoli di certi interessi e valori comuni, concepiscono se stessi come legati da un quadro comune di regole” . Questo ordine, nel corso dell’arco di tempo che ci interessa, viene per-seguito attraverso sistemi che procedono da diverse visioni del rapporto fra le nazioni e di quello tra politica e diritto. Cominciamo con l’equilibrio. Al tempo del Concerto europeo, del-l’ordine la Gran Bretagna è l’indispensabile garante (dal 1814 al 1890). L’intuizione che alligna dietro questo assetto è riassunta mirabilmente da Palmerston: “Non abbiamo alleati eterni e nemici permanenti” . La Gran Bretagna non si vincola a nessuna alleanza permanente perché la sua libertà di movimento le consente di gettare il proprio peso volta a volta a favore dell’uno o dell’altro allo scopo di riequilibrare una distribuzione di potere che rischia pericolose concentrazioni. Squisitamente pragmatica ma non per questo scevra di un faro intellettuale potente – impedire la formazione di egemonie continentali – l’idea di equilibrio ha consentito alla Gran Bretagna di tenere aperta la via di comunicazione di Anversa attraverso la costituzione di un Belgio indipendente nel 1839. Le ha permesso di realizzare un’impensabile entente con la Francia bonapartista di Napoleone III per tenere a bada la Russia nei Dardanelli con l’intervento in Crimea. Ha fatto del Regno Unito l’arbitro delle contese balcaniche e, ancor più, le ha conferito il potere di aprire e chiu¬dere le valvole per il mutamento degli equilibri: l’ascesa della Germania a spese di Austria e Francia è accompagnata oltremanica da una vigilanza occhiuta di cui Bismarck è ben consapevole. Luogo di questo esercizio di potere moderatore è il Concerto europeo, il più efficace ed elegante consesso diplomatico della storia europea: luogo di finezza e di fermezza che merita di essere ascritto tra le meraviglie dell’Europa ottocentesca, un riconoscimento che Kissinger ha tributato volentieri. La deterrenza subentra nel 1890 e accompagna l’Europa attraverso convulsioni e stasi fino al 1914 . Essa vede contrapposte due coalizioni impegnate ciascuna in un possente riarmo e posizionamento strategico (la Triplice alleanza e l’Intesa). L’innaturale saldatura della Gran Bretagna con il rivale impero russo, via Parigi, rappresenta una discontinuità di enorme portata con l’età dell’equilibrio, innescando una polarizzazione di schieramenti separati da diffidenza, rivalità e crescenti rivendicazioni. Certamente la costruzione della flotta di alto mare da parte della Germania è percepita come una provocazione da parte della Gran Bretagna la quale, peraltro, già nel 1905, era riuscita a distanziare l’av¬ver¬-saria nella campagna di costruzione delle dreadnoughts, le corazzate di nuova generazione. Il punto era che la crescita possente della Germania – l’“impero inquieto” secondo la felice formula di Stürmer – suscita un’ap-prensione che va oltre l’allarme per la sfida sul mare e al di là dell’irri-tazione per le dichiarazioni estemporanee del notoriamente maldestro Kaiser Guglielmo II. Il dibattito sulle origini della guerra beneficia oggi di uno sguardo ben più documentato e disincantato di quanto avvenisse fino a pochi anni fa. E lo stesso vale anche per la conduzione delle ostilità durante la Prima Guerra Mondiale, dove pare difficile esercitarsi in attribuzioni di colpe e sentenze di assoluzioni con la disinvoltura del giudice assiso sullo scranno privo di responsabilità personali e delle in-combenze decisionali accollate dagli eventi. Segue la sicurezza collettiva, una brillante invenzione politica del 1919 alla quale si deve il concetto di preservare la pace attraverso un’or¬ga¬niz-zazione che impegni tutti i suoi membri a difendersi reciprocamente sulla base del principio che l’aggressione verso uno è rivolta a tutti. La guerra diviene polizia internazionale e sanzioni, la neutralità degrada a concetto problematico: come essere neutrali di fronte alla commissione di un illecito? Protagonista della scena è la Società delle Nazioni, liquidata impietosamente dalla storiografia sulla base di un tipico esercizio di anacronismo retrospettivo: “è fallita e quindi significa che non poteva funzionare”. Per quanto tardivo, essa conosce da tempo un giustificato revival fondato su accurati studi di storia diplomatica . Prudenza s’impone però: gli squilli di tromba del riscatto dall’oblio non devono velare l’analisi. La volontà di rendere giustizia a un’istituzione seppellita dal pregiudizio liquidatorio non deve spingersi sino a ribaltare le con-clusioni sulle sue inadeguatezze, soprattutto dopo il 1931, che sono in-controvertibili. Qui più che mai l’esercizio storiografico deve essere im-prontato alla misura e alla serenità, senza ricerche di colpi di teatro. Infine, di nuovo, l’equilibrio. Monaco e il signore con l’ombrello, Neville Chamberlain, sono stati passati per le armi già all’indomani delle vicende che portano il loro nome. Guilty ! Colpevole! Decretava nel 1940 l’opinione britannica al punto che Monaco è divenuto sinonimo nell’età della guerra fredda di capitolazione incondizionata, nonché di una pericolosa e disarmante ingenuità diplomatica. Durante la crisi dei missili di Cuba il generale Le May ammoniva i Kennedy a non scivolare lungo la china dell’“appeasement” di Monaco, un insulto bello e buono visto che il padre lo aveva salutato con favore da ambasciatore americano a Londra, lasciando così ai figli un’eredità imbarazzante . Ancora una volta nuova luce è venuta dal buio degli archivi. La disponibilità di fonti inedite ha permesso anche in questo caso di rettificare almeno in parte il verdetto. Il tentativo di ripristinare un equilibrio europeo, sulla base di una graduale modifica delle condizioni di Versailles, in nome di una rinnovata disponibilità britannica a giocare da broker e garante di accordi continentali, non può essere liquidato a cuor leggero. La conte-stualizzazione rivela una strategia meno ingenua di quanto sia stata ac-creditata dagli osservatori, armati del beneficio di un senno di poi tanto impietoso quanto sommario. Come procedere in una corsa a ostacoli così impegnativa? Chiunque si avventuri nelle acque insidiose delle relazioni internazionali sa che occorre una bussola per evitare di smarrire la rotta tra i mille riflessi che emana questo mare. Ebbene la scienza politica non è avara di modelli che offrano una guida. Il più celebre è quello realista secondo il quale gli stati obbediscono a pulsioni egoiste, agendo sulla base della volontà di potenza e della paura. Il loro obbiettivo è la sicurezza, ottenuta anche al prezzo del ricorso alla forza militare, di gran lunga l’indicatore più importante dell’influenza statale. Nella versione elaborata da John Mearsheimer, il paradigma realista appare particolarmente persuasivo . A contendergli il campo, è il modello liberal-internazionalista che en-fatizza l’oggettiva interdipendenza e la disponibilità alla cooperazione degli stati i quali, proprio perché orientati alla massimizzazione della si¬cu-rezza e del profitto, trovano nelle istituzioni internazionali un alveo in¬di-spensabile per raggiungere la sospirata tranquillità. Questa volta è John Ikenberry a fornire una declinazione storica suggestiva del modello . Per quanto certamente utili e avvincenti, queste bussole esigono cau-tela. Lo storico deve maneggiare con distacco strumenti che attenuano sì il suo smarrimento ma che sono anche attrazioni pericolose, potendo suggerire riduzionismi dogmatici sulle fonti. Le quali devono essere ri-spettate e lasciate parlare senza ingabbiarle a forza in un’armatura erme-neutica precostituita. Il procedimento dello storico è induttivo; utilizza chiavi interpretative senza però lasciarsene condizionare al punto da met-tere a tacere le voci dissenzienti nelle quali gli sia dato imbattersi. Fin qui l’alveo della narrazione è quello delle relazioni internazionali e la traccia quella dell’ordine europeo: una questione squisitamente politica, croce e delizia di statisti e diplomatici, più raramente dei giuristi. Ma appunto: quale è la parte del diritto in questa storia? Basta poco per constatare come diritto e potenza, norma e interesse nazionale non siano antitetici. Il potere, per ottenere legittimità e trasformarsi in auto-rità, ha bisogno del riconoscimento giuridico. Certo la legittimità è in-nanzitutto un processo politico, fondato sul consenso ; ma la produzione del consenso si avvale della sintassi delle norme giuridiche . “Ben più di quanto i realisti non siano disposti ad ammettere”, scrive Hurrell, “gli stati hanno bisogno del diritto internazionale e delle istituzioni sia per condividere i costi materiali e politici per la protezione dei loro interessi sia per guadagnare l’autorità e la legittimità che il possesso del potere nudo non può mai assicurare” . Pertanto le due dimensioni, quella diplomatica e quella giuridica, non possono essere reciprocamente ignorate, ma reclamano un adeguato sforzo di integrazione cognitiva: distinte nella loro natura, esse si intrec-ciano indissolubilmente nella narrazione, perché oggettivamente inter-dipendenti . Come condurre la ricerca? È importante innanzitutto guardare alla dimensione teorico-dottrinale. La dottrina giuridica vanta la capacità di rendere consapevoli ed esplicite le forze portanti dell’ordinamento, de-cantando l’essenziale dal superfluo, per offrire una compiuta esposizione che rivela tanto le priorità disciplinari della corporazione accademica quanto gli orientamenti della prassi. La dottrina quindi è fonte in due modi: direttamente, allorché trasforma in disciplina scientifica i fatti, rendendo presente alla coscienza giuridica ciò che era un mero noumeno, una pura potenzialità. Ma è fonte anche indirettamente quando ri-scostruisce la prassi, certamente non in modo asettico, ma per lo più ac-curatamente. La guida che offre allo storico è pertanto insostituibile. Inoltre solo studiando la scienza giuridica si possono cogliere pienamente i confini temporali e spaziali di una vicenda, come quella del diritto internazionale, che reca due contrassegni evidentissimi: ossia moderna ed occidentale. Ahimè forse non così evidenti se accade ancora di imbattersi in amenità, o meglio enormità, come “il diritto internazionale del-l’antichità e del medioevo” o come il “diritto internazionale dei paesi extraeuropei”. È motivo di sorpresa che si possa ancora ignorare come il diritto internazionale sia un prodotto della identità giuridica occidentale maturato dal Seicento in poi, le cui condizioni di pensabilità – lo stato, la sovranità, il diritto naturale, l’individuo, etc. – nemmeno si possono lontanamente immaginare nell’età feudale (per tacere poi dell’antichità!) o in tradizioni antropologiche e culturali diametralmente refrattarie a queste astrazioni della cultura europea. Se mancano gli archetipi comuni è davvero improbabile che una cultura possa attingere a una elaborazione filosofica tutta dipendente da questi. Tacciare di eurocentrico un ap-proccio che muova da queste premesse equivale a cercare nella umma islamica i principi del laicismo e della secolarizzazione del costituzionali-smo. “Voi siete prima cristiani, o prima italiani? Ecco non esiste una “umma”: voi siete laici, vero?” . Proviamo a immaginare al posto del pakistano di Giorgio Manganelli il mandarino cinese dell’Ottocento al cospetto delle astrazioni del diritto internazionale e possiamo misurare l’assurdità di questo terzomondismo storiografico. Eppure la storia delle dottrine giuridiche per quanto necessaria, non è affatto sufficiente. La ricostruzione dottrinale è tanto indispensabile quanto inadeguata a fornire da sola un quadro a tutto tondo di una esperienza giuridica che annovera nella sua comunità epistemica diplo-matici, giudici, statisti, militari e una miriade di altri soggetti oltre agli accademici professionali, come i pacifisti, gli attivisti religiosi, i movi-menti umanitari. Ignorare la vita del diritto internazionale che palpita negli istituti, nelle istituzioni, nella prassi, nei dibattiti pubblici significa scientemente rinunciare a guardare l’altra metà della luna per concentrarsi su quella più familiare al giurista e di più facile accesso. L’integra¬zione con la storia delle relazioni internazionali serve appunto a colmare questa lacuna cognitiva. Per dirla in due parole: la storia delle dottrine giuridiche deve essere una pista e non una scorciatoia; un arricchimento e non un alibi per sottrarsi allo sforzo di andare oltre i dibattiti rarefatti degli accademici il cui impatto sulla prassi non è stato spesso all’altezza della intensità della loro passione intellettuale. Il che significa ricostruire la vita degli istituti e delle istituzioni, guardare ai contesti facendosi forte della grande expertise conquistata in questa materia dalla storia politica e delle relazioni internazionali. La soluzione opposta, ossia quella di ridurre la storia del diritto internazionale a quella delle dottrine, equivale a sostenere che un quadro di Salvador Dalì rappresenti fedelmente la realtà del suo tempo! Vi è del resto ben altro a suggerire un approccio storiografico il più completo possibile, che non appiattisca la storia di una vicenda così complessa a quella di un gigantesco seminario immaginario di professori. Il recinto chiuso della storia delle dottrine è tanto rassicurante quanto insidioso. Esso subisce il richiamo di quattro sirene che rischiano di tra-scinare con sé lo storico, intaccando la sua integrità. Eccole. La prima è la metateoria. Il contatto prolungato con le dottrine altrui può indurre nella tentazione di servirsene per accreditare surrettiziamente proprie visioni senza pagare il pedaggio preteso dalla critica per tanta ardita affermazione di soggettività. Ciò può accadere inconsapevolmente, per una sorta di transfer di cui lo storico nemmeno si accorge. La seconda è quella dell’autoreferenzialità. Il racconto della evoluzione di un sapere disciplinare scivola con facilità nell’autocompiacimento, nella celebrazione o nel suo opposto, nella critica del pensiero altrui senza contraddittorio, iscrivendosi all’interno di una competizione strategica endocorporativa dove a contare davvero è il posizionamento nella comunità professionale – quella di oggi, non quella di allora. La terza è quella dell’ideologia. La storia delle dottrine giuridiche non è certo avara di voci e non è difficile a chiunque reclutare quelle più congeniali a una concezione presupposta della realtà ignorando le altre, quelle che le sono eterodosse. Sarà pure vero, come dice Croce, che la storia è sempre storia del presente, ma questa ammissione non autorizza a scegliere nell’archivio delle idee quelle funzionali scartando le altre, senza riguardo alcuno per l’impatto che esse hanno prodotto nel tempo in cui sono state profferite. Non si può trasformare a piacimento Eleonora Duse in una comparsa, e viceversa! La quarta è lo zelo militante. Il dibattito sull’universalità dei diritti umani costituisce un capitolo fondamentale della filosofia e come tale, inevitabilmente, invita ad attingere alle fonti storiche. Le quali vengono mobilitate anch’esse in soccorso della causa, senza andare troppo per il sottile e con una spiccata propensione per gli autori che irradiano una luce politica assonante con quella al momento prediletta. “Gli storici dei diritti umani”, osserva Moyn, “affrontano il loro argomento, a dispetto della sua novità, nello stesso modo in cui gli storici della Chiesa affron-tavano il loro. Considerano la causa fondamentale – nello stesso modo in cui gli storici della Chiesa trattano la religione cristiana – come la ri-velazione della verità, scoperta più che forgiata nella storia” . E quindi? Se è dato immaginare un antidoto efficace per combattere siffatta contaminazione, ebbene questo è offerto dal contatto con la mag-matica ed erratica storia diplomatica la quale oppone una tenace resistenza a ermeneutiche teleologiche. Certo è un cordone sanitario che esige un prezzo elevato per la protezione che accorda allo storico: al cospetto della sfuggente histoire événementielle ci tocca constatare che i conti spesso non tornano: il racconto non ha un inizio e una fine nitidi e soddisfacenti . Molto rimane al dubbio e all’imponderabile. Ma è forse compito dello storico fare tornare i conti a tutti i costi? Direi di no, e lungo questo crinale si coglie la distinzione che corre tra un’idea-forza e la forzatura di un’idea. Il percorso che propongo con questo saggio è sintetico e come tale necessariamente sommario quanto a dettagli e sfumature. Ho voluto salvaguardare l’insieme della visione in una cavalcata piuttosto impegna-tiva che copre l’arco di quasi due secoli. Il lettore giudicherà se vi sono riuscito. Prima di congedarmi da questa ouverture per lasciare qualcosa alla curiosità del viaggio (che spero di non avere spento!) voglio ringraziare la musa di questo libro che ella ha voluto ben più di quanto lo desiderassi io stesso.

Maggiori Informazioni

Autore Mannoni Stefano
Editore Giappichelli
Anno 2014
Tipologia Brossura
Num. Collana 0
Lingua Italiano
Indice Introduzione. – I. Pax britannica (1814-1890). – II. Guerra, diplomazia, storiografia (1914-1919). – III. Prove di ricostruzione (1920-1938). – Appendice cartografica.